Stefano Gensini, RICORDANDO TULLIO DE MAURO (1932-2017) “È LA LINGUA CHE FA UGUALI!

1 Febbraio 2017

Della riforma linguistico-culturale che De Mauro ha cercato di promuovere resta traccia profonda nei programmi delle scuole, in qualche legge dello Stato, in un modo di pensare e vivere il mestiere di insegnante che ha fatto breccia in diverse generazioni di docenti, soprattutto della scuola di base. Quell’insegnamento non vive solo negli allievi “accademici” di De Mauro, ma anche nei maestri e professori che hanno cercato di rinnovare, partendo dal linguaggio, il proprio rapporto con gli alunni. L’Università di Roma ha dato l’ultimo saluto a Tullio De Mauro, scomparso il 5 gennaio scorso, nell’aula I della Facoltà di Lettere, la “sua” Facoltà. La cerimonia, sobria e affollatissima, ha compreso un breve discorso del Rettore, Eugenio Gaudio, e una più ampia, commossa rievocazione di Alberto Asor Rosa, amico di una vita, e collega fin dalla metà degli anni Cinquanta, quando i due giovanotti di belle speranze si laurearono coi rispettivi professori, il glottologo Antonino Pagliaro e l’italianista Natalino Sapegno. 1 / 7 Malacoda Webzine di lotta per un’alternativa letteraria e culturale. http://www.malacoda.eu Nel 1961, a 29 anni, De Mauro ebbe alla Sapienza l’incarico di Filosofia del linguaggio, una materia semisconosciuta in Italia, poi la carriera lo portò a insegnare discipline linguistiche a Palermo e a Salerno (dove fondò un Istituto di Linguistica che per i tempi era un prodigio di innovazione, quanto alla qualità degli studi e alla rete dei rapporti internazionali); tornò infine a Roma nel 1974-75, di nuovo sulla cattedra di Filosofia del linguaggio e poi, dal 1996, di Linguistica generale, la denominazione disciplinare che gli era più cara, sulle orme di Ferdinand de Saussure (nel 1967, si ricordi, De Mauro aveva tradotto e commentato il famoso Corso di linguistica generale, instaurando una linea ‘neosaussuriana’ di ricerca linguistica). Nel 2000, al culmine della sua attività scientifica e istituzionale, la nomina a ministro della Pubblica istruzione, interrotta dopo solo un anno dalle alterne vicende della politica italiana. 1961-2000, dunque. In quei quarant’anni di intervallo De Mauro aveva fatto cose straordinarie, non solo sul piano scientifico, ma anche su quello della formazione (scolastica e non), dell’organizzazione culturale, delle politiche, anche tecnicamente intese, della lingua e della cultura. Va anzi detto subito che ricerca scientifica – condotta con grande autonomia, ma sempre in fitto dialogo con figure centrali del dibattito internazionale – e iniziativa politicoculturale sono sempre state strettissimamente connesse nel lavoro di De Mauro, che anche per questo aspetto è stato persona del tutto anomala rispetto al profilo dell’intellettuale italiano, anche di quella – come suol dirsi – civilmente impegnata. Il linguaggio, inteso non solo come insieme di strutture formali, ma come filtro e sedimento e specchio della vita e dei costumi, come snodo delle differenze e delle fratture socio-culturali, è stato il terreno su cui questa saldatura si è resa possibile. 2 / 7 Malacoda Webzine di lotta per un’alternativa letteraria e culturale. http://www.malacoda.eu Farò solo pochi esempi, perché un discorso sistematico va rimandato ad altra occasione. Nel 1963 De Mauro pubblicò presso Laterza una Storia linguistica dell’Italia unita oggi considerata una pietra miliare dei nostri studi: come il titolo lasciava intendere, non si trattava tanto di una storia della lingua, quanto una di storia degli italiani, visti attraverso il loro rapporto con i dialetti e la lingua nazionale, scandito da eventi macro-storici: il policentrismo costitutivo alla realtà italiana dalle sue origini prelatine alla tardiva e difficile unificazione nazionale; l’esistenza di scompensi paurosi nelle competenze alfabetiche sia su base sociale che su base regionale; il ruolo giocato da processi quali l’urbanesimo e l’industrializzazione, l’abbandono delle campagne, gli spostamenti migratori dal Sud verso il Nord e dall’Italia verso il mondo intero. Più che una marcia trionfale verso la modernità, la vicenda dell’italiano appariva un percorso tortuoso e drammatico, nel quale l’azione dei fattori ‘indiretti’ di unificazione (ad esempio le migrazioni interne, più tardi i mezzi di comunicazione di massa) era stata ben più efficace di quella delle politiche scolastiche e linguistiche prima dell’Italia liberale, poi di quella fascista e da ultimo repubblicana. Eventi e fattori, tutti questi, che restavano ignoti alle narrazioni storicolinguistiche precedenti e che grazie al libro di De Mauro ebbero, sui giovani studiosi allora in formazione, un impatto straordinario, suscitatore di un radicale cambiamento di prospettive e di metodi. Da disciplina filologica, rivolta prevalentemente al passato, la linguistica era chiamata a farsi scienza della cultura, scienza sociale, a interagire con tutti i campi di ricerca e di intervento che condizionavano (e condizionano in generale) la realtà del linguaggio e della comunicazione. Non a caso, la Storia linguistica portava a epigrafe (accanto a Vico e a Wittgenstein) parole ben note di Brecht (“Chi costruì Tebe dalle sette porte?”) e, nella copertina della prima edizione economica, altre parole famose, quelle dell’ultimo Gramsci (“Ogni volta che affiora la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi”. Con quel che segue). Ecco: il posto del linguaggio, delle capacità linguistiche dei parlanti in carne e ossa, come base dei processi che formano o decompongono una certa egemonia culturale. Questo il filo conduttore del pensiero demauriano (non tanto ispirato a Gramsci, ai suoi inizi, quanto, appunto, a Saussure, a Vico e Croce, al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, alla teoria semantica di Pagliaro), un pensiero che di lì a breve si trasforma in iniziativa linguistico-culturale a tutto campo. Nel 1965 (mentre esce la celebre Introduzione alla semantica) De Mauro pubblica in una rivistina di pedagogia il saggio La scuola tra lingua e dialetto, col quale inizia ufficialmente la critica ai modelli di educazione linguistica diffusi nell’istruzione di base e prende il via il dibattito per una ‘educazione linguistica democratica’. Dieci anni dopo, il concetto di ‘educazione linguistica’ (mutuato da Giuseppe Lombardo-Radice, ma ripensato nella chiave di una moderna teoria semiotica dei linguaggi) è ormai al centro di una rete nazionale di ricerca e intervento scolastico: i Giscel (Gruppi di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica, nati all’interno di un’altra creatura demauriana, la Società di linguistica italiana) varano le famose ‘Dieci tesi’, prontamente adottate dai Cidi, i “Centri di iniziativa democratica degli insegnanti” ormai disseminatisi in tutto il paese, e base di migliaia di corsi di aggiornamento, in ambito scolastico, sindacale, e variamente istituzionale. Nel 1979 i nuovi programmi della scuola media accolgono il nocciolo delle Dieci tesi e lo stesso fanno, sei anni dopo, i nuovi programmi della scuola elementare. Siamo, del resto, in un periodo di intenso, anche se non facile, dialogo fra studiosi, organizzazioni degli insegnanti e vertici ministeriali: un periodo che oggi abbiamo mille motivi per rimpiangere. Ma lo zampino di De Mauro c’è in molti altri settori: basti pensare al dibattito sulle 3 / 7 Malacoda Webzine di lotta per un’alternativa letteraria e culturale. http://www.malacoda.eu minoranze linguistiche e sullo studio e uso del dialetto nella scuola, che solo nel 1999 approderà a una legge dello Stato, peraltro non del tutto soddisfacente, e limitata alle sole minoranze ‘storiche’. E si pensi sopratutto all’enorme lavoro speso a favore della divulgazione scientifica, che caratterizza il De Mauro degli anni Ottanta, e che ha il suo frutto maturo nei Libri di base degli Editori Riuniti: una collana editoriale di tipo enciclopedico intesa a mettere a disposizione di chiunque avesse almeno la licenza media volumi di introduzione ai temi del sapere, agli autori, alla storia e alla filosofia redatti dai migliori intellettuali italiani secondo vincoli linguistici e stilistici di alta leggibilità. La collana, malgrado la capacità di penetrazione degli Editori Riuniti fosse limitata rispetto alle grandi sigle, ebbe un ampio e durevole successo, attestandosi ben oltre le diecimila copie di media a titolo, e servì a far capire che ‘divulgazione’ non significava per forza banalizzazione, svilimento concettuale, ma piuttosto implicava un severo sforzo di autodisciplina autoriale e un continuo filtraggio da parte di una redazione specializzata, nella tradizione della migliore tradizione divulgativa sia francese sia anglosassone. Il discorso culturale demauriano si era profondamente intrecciato nel tempo alle battaglie politiche, civili, scolastiche della sinistra, e aveva trovato nel Partito comunista di “quando c’era Berlinguer” un interlocutore continuo e appassionato. A parte qualche diretto incarico politicoistituzionale (l’assessorato alla cultura della Regione Lazio), De Mauro, pur restando un ‘indipendente’, contribuiva a vari livelli al lavoro culturale del partito, dall’ambito delle politiche scolastiche e legislative, all’Istituto Gramsci, alla stampa. Ricordo una raccolta di articoli di giornale – Le parole e i fatti – uscita nel 1976 per gli Editori Riuniti, dove si trova fra l’altro l’espressione “Vertenza linguaggio”: un titolo che era un programma di battaglia, anzi, come diceva, di “vera e propria guerra culturale” da combattere contro il tradizionale aristocraticismo della classe dei colti, contro il disinteresse del mondo politico, giornalistico e televisivo per le reali capacità (e necessità) di conoscenza e comprensione della larga maggioranza degli italiani. Una battaglia durissima, che è durata fino agli ultimi giorni. Anche perché la cosiddetta Seconda Repubblica, decisa a liberare il popolo dai “compromessi” dei decenni passati, ha fatto strame del dialogo fra scuola e politica, ha distrutto la partecipazione democratica degli operatori della scuola, ha umiliato la ricerca e instaurato il modello aziendalista e verticista che oggi conosciamo e che – a quanto pare – non riusciamo a combattere. Né la “sinistra” si è sottratta all’aria del tempo. I Libri di base erano stati chiusi d’autorità dalla segreteria occhettiana del Pci, e la stessa sorte era toccata a Riforma della Scuola , la rivista sui problemi dell’educazione che, diretta da De Mauro, aveva conosciuto una nuova fase di slancio e di radicamento professionale. L’onda lunga dell’educazione linguistica democratica raggiunse tuttavia nel 1995 il suo ultimo successo: auspice Sabino Cassese, veniva varato il Codice di stile ad uso delle amministrazioni pubbliche, un repertorio di informazioni e istruzioni per redigere in forma di ampia accessibilità i testi rivolti al grande pubblico, dalle bollette della luce, alle disposizioni d’ufficio, ai regolamenti, alle leggi. Il Codice era (è) un distillato tecnico del tanto lavoro di ricerca didattica fatto o promosso da De Mauro e avrebbe meritato una ben più sistematica circolazione di quella che ha avuto ed ha (anche se non mancano importanti eccezioni). Il clima culturale era troppo mutato. Il ministero che a De Mauro toccò dirigere dal 2000 al 2001 poté fare ben poco per arginare il declino, segnato anche dai problemi economici strutturali dello Stato. Voglio solo ricordare che, in quell’anno in cui si trovò al vertice (nel 4 / 7 Malacoda Webzine di lotta per un’alternativa letteraria e culturale. http://www.malacoda.eu governo diretto da Giuliano Amato) De Mauro rinunciò lucidamente a “lasciare il segno” di una qualsiasi pseudo-riforma legata al proprio nome: si fece amministratore della riforma appena varata, in fretta e furia, dall’on. Luigi Berlinguer, cercando di darle gambe e braccia, di farla funzionare. Uno sforzo generoso e collegiale (aveva messo in piedi gruppi di lavoro in tutta Italia, e una commissione nazionale di esperti in cui aveva portato il suo stile inconfondibile), ma che non poteva durare. Il successivo governo Berlusconi smantellò tutto quello che era smantellabile. Letizia Moratti successe a De Mauro, e poi son venuti i Profumo, le Gelmini, le Carrozza, le Giannini, “perle” di un progressivo disfacimento istituzionale di cui non si vede la fine. Malgrado le enormi difficoltà legate alla vita economica e istituzionale italiana, alla ostilità e alla resistenza opposte da numerosi ambienti intellettuali e politici (ivi inclusi i succedanei, più o meno miseri, di quel che fu il Partito comunista), la riforma linguisticoculturale che De Mauro ha cercato di promuovere ha dunque dato frutti importanti. Ne resta traccia profonda nei programmi delle scuole, in qualche legge dello Stato, in un modo di pensare e vivere il mestiere di insegnante che ha fatto breccia in diverse generazioni di docenti, soprattutto della scuola di base. Quell’insegnamento non vive solo negli allievi “accademici” di De Mauro, ma anche nei maestri e professori che dalla scuola dell’infanzia alle superiori hanno cercato di rinnovare, partendo dal linguaggio, il proprio rapporto con gli alunni. Memori del fatto, come diceva don Milani e De Mauro ribadiva, che “è la lingua che fa uguali” e che, nel mondo del terzo millennio, contraddistinto dalle tecnologie globali di comunicazione, dallo web e dalle tragedie planetarie che ci stanno sotto gli occhi, l’accesso all’informazione è bene di prima necessità. Di qui, fra l’altro, l’inesausta fatica di diffusore di dati sull’analfabetismo di ritorno che De Mauro si è sobbarcato per decenni, e la denuncia coraggiosa, quasi solitaria, dei disastrosi livelli di competenza alfabetica di due terzi degli italiani fatta in tutte le possibili sedi, in particolare negli ultimi anni. Il lettore trova una sintesi di tutto ciò ne La cultura degli italiani (intervista a cura di Francesco Erbani, 2004, 2nda ed. aggiornata 2010, sempre presso Laterza), un libro che bisognerebbe regalare – a patto che poi lo leggessero – a politici e opinion-makers dei nostri giorni. Mi accorgo, giungendo alla fine di questo scritto, che ho tralasciato ampia parte del lascito più strettamente scientifico di De Mauro. Nulla ho detto del suo contributo alla semantica storica, a una teoria semiotica dei linguaggi (degli animali umani e non), alla filosofia del linguaggio (è stato, fra l’altro, insieme all’amico e collega Umberto Eco, fondatore della Società di filosofia del linguaggio, che si affianca alla già ricordata SLI, Società di linguistica italiana). Ma non posso tralasciare la citazione del Grande dizionario dell’uso della lingua italiana, pubblicato dalla Utet in sei volumi dal 1999 al 2007, da cui sono rampollati dizionari dei sinonimi, delle parole straniere, variegati strumenti didattici: un’opera gigantesca, frutto di un lavoro d’équipe durato molti anni, in cui prende corpo quell’immagine stratificata, decentrata, non monolitica dell’italiano che De Mauro aveva ricostruito in infinite ricerche specifiche condotte sul campo, che qui confluiscono – appunto – nella nozione di italiano d’uso, dell’italiano degli italiani, e non solo degli autori o dei “poeti laureati”. E va ricordata infine, fra le tessere più recenti di una bibliografia sterminata, la Storia linguistica dell’Italia repubblicana. Dal 1946 ai nostri giorni, uscita nel 2014, che riprende e completa, con dati e interpretazioni originali, il discorso storico del libro da cui siamo partiti. 5 / 7 Malacoda Webzine di lotta per un’alternativa letteraria e culturale. http://www.malacoda.eu I lettori mi perdoneranno se ho privilegiato la ratio pubblica, civile e educativa della vicenda di De Mauro. Ma certo ci saranno occasioni per parlare della sua eredità di specialista, nelle sue complesse articolazioni, e anche nelle sue sfumature. (Qualcosa si è provato a fare già anni or sono, in Tra linguistica e filosofia del linguaggio. La lezione di Tullio De Mauro, a c. di F. Albano Leoni, S. Gensini, E. Piemontese, Laterza ed.). Del resto, la statura di De Mauro, studioso e persona, è stata tale da non lasciarsi rinchiudere in un qualsiasi ritratto accademico. Vorrei finire ricordando due lavori forse meno noti, ma che penso possano interessare da vicino i lettori e gli amici di Malacoda. Uno è una singolare intervista uscita per la prima volta nella Nuova Antologia, “Come non nacque e (diis adiuvantibus) non morì un marxista teorico in Italia”, intervista rilasciata – con scoperta parafrasi di un titolo crociano – a chi lo aveva definito sulle stesse colonne “un laico di ispirazione marxista”. No, spiegava De Mauro, non sono marxista, se non nel senso che chiunque, oggi, deve o dovrebbe riconoscere quanto di importante Marx ha insegnato. Le mie radici stanno nel pensiero liberale, in Cattaneo, in Croce, arricchite da Wittgenstein, da Gramsci. Ma ho condiviso, questo sì, le battaglie di democrazia e di libertà dei comunisti italiani, quelle battaglie che nelle grandi democrazie europee fanno i liberali e che qui fanno, o hanno fatto fino a un certo punto, solamente i comunisti. E’ un’intervista tutta da 6 / 7 Malacoda Webzine di lotta per un’alternativa letteraria e culturale. http://www.malacoda.eu leggere perché ragiona sugli anni e le vicende politiche che hanno coinvolto tutti noi, dagli anni Sessanta in poi, e perché dice qualcosa di molto importante sulla costellazione intellettuale della sinistra, a partire, direi, dalle biografie individuali, dal rapporto fra specialismo e politica che è stato praticato in un periodo storico decisivo. (L’intervista si può leggere in appendice a un delizioso volumetto autobiografico, Prima persona singolare passato prossimo indicativo, edito da Bulzoni nel 1998) L’altra lettura che vorrei consigliare è una raccolta di saggi (temo ormai la si trovi solo in biblioteca o magari in ebay), intitolata L’Italia delle Italie, pubblicata dapprima dalla Nuova Guaraldi, e poi, ampliata, dagli Editori Riuniti (1987 e 1992). Vi si parla di teatro, di poesia dialettale, di beni culturali, di tanti temi (e anche persone) cari agli interessi di De Mauro. Ma è l’idea-forza quella che desidero sottolineare. Non c’è una sola Italia, ce ne sono molte, tutte con una storia, tutte legittime, tutte con proprie tradizioni, linguaggi, problematiche vecchie e nuove. Alla visione postrisorgimentale (poi estremizzata dal fascismo) di un paese teleologicamente orientato alla nazione, va sostituita quella di un paese plurale, complesso e spesso contraddittorio, nel quale la spinta unitaria non è mai scontata e convive con infinite differenze, che però ne costituiscono – questo è il punto – la vocazione originaria e la ricchezza, forse anche in chiave futura. De Mauro si richiamava qui di nuovo ai classici della sua formazione, a Vico, a Cattaneo e De Sanctis, a Ascoli, a Croce e Lombardo-Radice, e lo faceva traducendo il tema della differenza in quella visione politica dell’egemonia imparata dai testi e dalla dura esperienza umana di Gramsci. L’Italia delle Italie è un antidoto salutare alle analisi da talk-show e alle profezie politologiche dei nostri anni. Mi piace pensare che un giorno questo libro, o almeno qualche sua parte, entri nelle nostre scuole, e ve lo si legga e mediti alla guisa di un classico.